Del sesso si parla più di ogni altra cosa. Continuamente mostrato, detto, spiegato, definito fin nei più minuti dettagli, rintracciato nei corpi come fattore determinante delle biografie degli individui, identificato come il luogo ultimo delle verità del singolo, il sesso si trova al centro di un’immensa prolissità. Come suggeriva Michel Foucault, “quel che è caratteristico delle società moderne non è che abbiano condannato il sesso a restare nell’ombra, ma che siano condannate a parlarne sempre, facendolo passare per il segreto.” Sollecitati da una sorta di imperativo morale alla confessione, convinti di non dirne mai abbastanza, che l’essenziale ci sfugga sempre, che nascondiamo per inerzia o sottomissione una qualunque evidenza, finiamo per fare della nostra stessa sessualità un discorso permanente. Eppure tali discorsi non hanno niente di liberatorio e tantomeno di eversivo. Alla luce dell’analisi foucaultiana, infatti, alla sessualità non è possibile guardare come ad una pulsione incontrollabile e trasgressiva dei codici culturali. Piuttosto dobbiamo concepirla come un dispositivo storico, in grado di trasformare ogni atto, ogni desiderio, ogni sensazione in oggetto di conoscenza, in campo del sapere, in materia da disciplinare.
Questo è il motivo per il quale il sesso ha smesso di inquietarci davvero. Meticolosamente normato, fin nelle sue espressioni più eccentriche e polimorfe, esso ha perso contatto con quella dimensione del numinoso, del tremendum et fascinans propria dei fenomeni che riguardano il mistero della vita umana e che ci chiamano su quel piano ambivalente in cui “tutto appare nella sua costitutiva duplicità, senza alcuna possibilità di rifugiarsi nella pretesa monoliticità di parole e cose” (Umberto Curi). Ed è per questo che abbiamo nostalgia dell’erotismo: perché esso è quel luogo ove una cosa è sé stessa ed il suo contrario, dove è possibile superare i limiti dell’individualità dissolvendo con essi quelle forme della vita sociale, disciplinata, che formano l’ordine discontinuo delle nostre individualità definite.
Eppure le fotografie di Vito Frangione lasciano nello spettatore una sensazione di indefinibile e affascinante turbamento. Io credo che accada non per quello che dicono ma per quello che tacciono. Tramite la tecnica del frammento, l’autore mostra l’atto sessuale senza svelare interamente il genere e l’orientamento sessuale dei partner coinvolti. Ecco che il gioco delle regole sociali, impegnato in un’opera incessante di strutturazione ed impostazione delle identità, viene preso in scacco, restituendo all’eros la propria dimensione sacrale. Ora, che tutto non possiamo sapere, che tutto non possiamo dire, siamo pronti ad accedere all’amore che emerge solo quando il linguaggio collassa. È nell’impossibilità di dire che gli amanti sperimentano la forza della propria passione, come scopre Platone nel Simposio; è perché hanno cose da dire che non riescono a dire che vogliono stare insieme per sempre. Ed è l’unione delle carni forse il tentativo più struggente di intendersi al di là del linguaggio. I corpi ritratti da Frangione inducono lo spettatore ad esplorare quella regione enigmatica e buia abitata dall’erotismo dove, assieme alla parola, anche la ragione, con le sue logiche viene meno, lasciando spazio a ciò che sfugge al discorso: alla nostra parte folle. È qui che abita il nostro essere più profondo. Occorre ricordare che se dal punto di vista razionale siamo tutti uguali, perché condividiamo le regole del logos, create proprio per consentirci la comprensione reciproca, ciò che ci distingue è proprio la qualità della nostra follia.
Ed allora si comprende perché così scarsa importanza abbia se a far l’amore siano due donne, due uomini, od un uomo ed una donna. Per tutti la posta in gioco è la stessa: la possibilità di accedere alla propria dimensione folle, la possibilità di entrare, attraverso l’altro, in uno stato atopico, fuori dal luogo dell’Io in quella zona dell’essere che ci costituisce nella nostra differenza.
Dunque, la follia e l’eros sono una cosa seria perché ci permettono di essere noi stessi, al di fuori delle regole culturali e razionali che rendono possibile la vita comunitaria. Ma, affinché la nostra essenza più profonda sopravviva all’ombra del sole della ragione, follia e eros non vanno, spiegati, enunciati o rispettati, vanno venerati.
Daniela Peruzzo
Tre coppie, tre diversi orientamenti sessuali, tre giorni, un solo letto: il risultato è Una Caro di Vito Frangione, una serie di 20 fotografie analogiche B/N stampate ai sali d’argento presso il Laboratorio Fotografico Corsetti, che ha anche esposto la mostra con il patrocinio del Circolo di Cultura Omossessuale Mario Mieli.
Una Caro vuole indagare la condizione umana nella sua dimensione più atemporale e sacra, quella del rapporto sessuale. Il titolo allude provocatoriamente al Codice di Diritto Canonico che, nel canone 1061, riprendendo il Vangelo secondo Matteo, spiega in latino come i coniugi siano destinati a divenire “una caro” cioè “una carne sola”. L’espressione intima dell’eros nella coppia è da sempre una liberazione dai limiti che segnano la condizione di solitudine di ogni individuo.
In un periodo in cui, particolarmente in Italia, diventa urgente il problema del pari riconoscimento per le unioni di fatto e il matrimonio omosessuale, le immagini di Una Caro vogliono spingere gli spettatori, tramite la trasgressione voyeuristica dello sguardo fotografico, a riflettere sull’indefinitezza e sull’inafferrabilità del desiderio, espresso puramente tramite l’unione dei corpi. «Il sesso è uguale per tutti» sottolinea a questo proposito Vito Frangione «Non per le modalità, ma per l’essenza. Non ci sono regole. È il momento in cui il giudizio si annienta, e l’uomo torna alla sua condizione naturale. Il genere, il colore, rimangono fuori, nella ragione del mondo esterno».
Una Caro, partendo da queste considerazioni, investiga l’atto sessuale mediante il dettaglio che diventa il mezzo perfetto per descrivere in modo immersivo e al tempo stesso distaccato la purezza espressiva del desiderio. Non importa se lo sguardo della camera inquadri corpi maschili o femminili, ciò che unisce queste carni, coinvolgendo lo sguardo dello spettatore, è la sacralità del desiderio e la sua necessità di esprimersi nella maniera più piena, al di là delle costrizioni sociali.
Vito Frangione è nato a Bari nel 1983, ma ha vissuto a Venosa (PZ) un piccolo paese alle pendici del Vulture, in Basilicata. A 19 anni si trasferisce a Roma per frequentare l’Istituto Europeo di Design e comincia a lavorare come motion designer. Nel corso degli anni si avvicina al mondo del cinema e della fotografia tradizionale. Nel 2012 diventa socio fondatore dello studio creativo MadeOn, un collettivo di registi, designer, producer, animatori 2D/3D e fotografi.